Jung afferma che “l'ipotesi di un inconscio collettivo fa parte di quei concetti che lì per lì stupiscono il pubblico, ma che poi entrano in suo uso e possesso come concetti familiari”. A tutt’oggi, nel pensiero comune, il concetto di inconscio viene perlopiù assimilato a quello freudiano: un bacino sotterraneo che raccoglie ogni esperienza propria, dimenticata o rimossa dall’individuo.
In Jung invece esso raffigura una realtà molto più vasta, della quale l’inconscio personale rappresenta solo lo strato più superficiale. In profondità – e per Jung “profondo” ed “elevato” possono essere equivalenti – fluttuano le informazioni che non sono frutto di esperienze personali, ma che fanno parte del patrimonio della specie, ovvero del genere umano, “un substrato psichico comune di natura sovrapersonale presente in ciascuno”, detto inconscio collettivo.
Se nell’inconscio personale sono registrati principalmente i contenuti di natura affettiva che danno precise tonalità alla vita psichica, nell’inconscio collettivo si muovono in maniera decisamente più autonoma gli archetipi, “immagini comuni presenti fin dai tempi remoti”. Gli archetipi emergono alla coscienza dell’individuo in forma diretta nei sogni o nelle visioni, inattesi e improvvisamente percepibili in tutta la loro potenza evocativa, ma sono eternamente rappresentati nei miti e nelle favole. Il mito svela all’uomo “l’essenza dell’anima”, poiché costituisce la narrazione in chiave psichica di esperienze naturali e sostanziali della vita umana: così il sorgere del sole e il suo tramontare divengono la storia del viaggio di un dio, riflesso della dimensione eroica radicata profondamente nell’animo umano.
L’inconscio personale dunque rappresenta una sorta di portale di accesso alla dimensione collettiva: la prima condizione che il viaggiatore coraggioso deve accettare è di incontrare la propria Ombra, l’immagine specularmene opposta di sé che intravede riflessa sulla superficie dell’acqua, simbolo per eccellenza dell’inconscio. “Chi va verso sé stesso rischia l'incontro con sé stesso”, osa vedere ciò che si nasconde dietro la maschera sociale incollata al proprio volto, chiamata Persona, e “dietro la maschera c'è lo specchio che mostra il vero volto”, compresa la sua parte più buia, quella che mai si vorrebbe mostrare al mondo. Incontrare l’Ombra significa scollare la maschera e contattare ciò che di se stessi viene ripudiato, perché considerato scomodo, carente, manchevole, inopportuno, sgradevole, o, in altre parole, brutto, cattivo, folle. Generalmente, tenendo ben aderente a sé la maschera fornita dalla Persona, l’individuo sfugge all’Ombra frammentandola e proiettandola all’infinito su oggetti del mondo esterno: sono gli “altri” allora ad essere brutti, cattivi e folli.
L’Ombra può però fungere da guida e accompagnare il viaggiatore ad esplorare dapprima l’inconscio personale: una volta accettati i propri limiti, il soggetto può acquisire la facoltà di tollerare la frustrazione e la sufficiente consapevolezza per guardare a sé e alle proprie imperfezioni senza fuggire.
Ecco che allora, dice Jung, accade qualcosa di nuovo, emerge una attenzione diversa ai pensieri, alle emozioni, ai sogni, e le “forze soccorritrici che sonnecchiano nella natura umana più profonda si destano e intervengono”, spalancando all’individuo la porta dell’inconscio collettivo, dimensione priva di confini e di parametri oggettivi. Qui perdono senso le distinzioni tra profondo ed elevato, interno ed esterno, proprio e comune, e lo stesso ente può presentarsi contemporaneamente affascinante e orribile, amorevole e malvagio, saggio e folle. Ma soprattutto, l’inconscio collettivo è il luogo “dove io sono inseparabilmente questo e quello, dove io esperimento l'altro in me stesso e l'altro esperimenta me come un Io”: un vero e proprio rovesciamento della coscienza abituale, dove l’individuo è soggetto tra gli oggetti, separato dagli altri e dal resto del mondo. Qui, nell’elemento acqua-inconscio, l’individuo è parte dell’essenza delle cose e non necessita più di confini tra sé e l’universo, perché vi si sente intimamente collegato.
Questa condizione è estatica e orrifica al tempo stesso: se ci fosse un avvertimento al viaggiatore che sta varcando la soglia dell’inconscio collettivo, questo potrebbe essere “terribilis est locus iste / hic domus dei est / et porta coeli” poiché non vi è dubbio che tale esperienza porti a incontrare il trascendente, qualunque forma esso possa assumere. Ciò evidenzia un pericolo per l’uomo, la cui coscienza è ancora così giovane e inesperta: un’ondata più forte dell’inconscio potrebbe travolgerlo e farlo naufragare, rendendolo capace di atti che, nel bene o nel male, desidera e al tempo stesso teme di compiere. Per questo da sempre l’umanità ha costruito dighe per contenere l’irrompere dell’inconscio collettivo: il rito, in tutte le sue configurazioni sacre o magiche, è da sempre un potente catalizzatore delle energie inconsce che intende domare o contenere, perché “primitiva o no, l'umanità sta sempre al confine di cose che essa stessa compie, ma che non controlla”.
Imbattersi nel trascendente è destabilizzante, in quanto mette in discussione la supremazia di quella coscienza dell’Io, invero più simile al controllo, che l’uomo occidentale ha reso oggetto di fede, venerazione e cura, ergendola a fondamento del proprio successo sociale.
Finché l’individuo si identifica con la maschera/Persona egli fa coincidere la propria identità con l’apparenza: “tutto sommato, la Persona non è nulla di "reale", è un compromesso fra l'individuo e la società su "ciò che uno appare". L'individuo prende un nome, acquista un titolo, occupa un impiego, ed è questa o quella cosa”. L’attore impersona dei ruoli e questi lo divorano, oscurandone la vera essenza, tanto che l’attore non sa più distinguere tra vita e rappresentazione. Allora, spesso accompagnato da una crisi esistenziale o dalla comparsa di un sintomo, arriva il momento, temuto e desiderato, nel quale l’individuo sente che i ruoli sociali non lo possono descrivere interamente.
L’emergere dell’inconscio segna il possibile inizio del percorso di individuazione: diventare se stessi ovvero realizzare il proprio Sé, la propria essenza più vera e intima, il centro del mandala. Jung afferma che l’Io sta al Sé come la Terra sta al Sole: l’Io non è contrapposto né sottoposto al Sé, ma piuttosto ruota attorno ad esso, illuminato e vivificato dalla sua energia, così potente e misteriosa da risultare inconoscibile ed essere definita da Jung stesso "il Dio in noi. (…) L'Io individuato si sente oggetto di un soggetto ignoto e superiore”.
Dunque chi osa guardare nell’acqua vede per prima cosa la propria immagine riflessa, ma presto, sotto la superficie, intravede altre immagini archetipiche, una delle quali rappresenta la sintesi tra spirito primitivo e cultura: l’archetipo dell’Anima (essenza del Femminile) e dell’Animus (essenza del Maschile). Essi rendono conto di tutto ciò che affiora spontaneamente nella psiche attraverso l’umore e l’impulso: “qualcosa che vive di per sé, che ci fa vivere; una vita dietro la coscienza, con la quale questa non può essere integrata e dalla quale, piuttosto, essa emerge”.
L’archetipo dell’Anima/Animus è considerato da Jung l’archetipo della Vita, dà voce a ciò che è primigenio o antico ed ama presentarsi, nei sogni e nelle visioni, in abiti storici. Esso va al di là del dualismo Bene/Male, per questo la sua integrazione nella coscienza necessita di una evoluzione psichica superiore rispetto all’integrazione dell’Ombra. Solo quando l’individuo riesce a compiere questa operazione, compare l’aspetto di saggezza ed è possibile comprendere che “ha significato solo l’incomprensibile”.
E il viaggio che pare giunto alla sua fine ha un nuovo inizio, perché "se nello sviluppo dell'individuo il confronto con l'Ombra è opera da apprendista, il confronto con l'Anima è opera da Maestro".