Pubblichiamo, per gentile concessione della rivista "Connessioni", un estratto dall'interessante articolo di Massimo Giuliani che ha come oggetto la terapia sistemica e la pratica (arte e tecnica) della narrazione, così come sono vissute e trasmesse dal Centro Milanese di Terapia della Famiglia (https://www.sabrinapiroli.com/formazione).
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Il giorno in cui ricordammo Luigi Boscolo a un anno dalla morte, dissi che la famosa scansione della seduta (quella di Paradosso e controparadosso, Selvini Palazzoli, Boscolo, Cecchin e Prata, 1978) in pre-seduta, seduta, discussione, intervento finale, ed infine stesura del verbale, era nient’altro che la struttura di un racconto, in cui si costruiva e si alimentava un crescendo narrativo fino al rituale finale dell’intervento. Non esiste storia senza ritmo e struttura: ma chi si è preso la briga di demolire quella struttura in nome di una svolta “narrativa” non sempre si è dato pena di spiegarci cosa sia una narrazione. Io temo sempre che passi l’idea che l’irriverenza sia un modo un po’ scanzonato di parlare con le persone; o la curiosità un modo di ficcare il naso, con grazia però, nelle loro vite. Allo stesso modo temo che tutto questo gran parlare di storie lasci l’impressione che una storia sia mettere in fila i fatti per poi spostarli e cambiarli come i mattoncini del Lego, e che, dal momento che “tutto è narrazione”, non ci sia bisogno di dire altro al riguardo. Se qualche volta ai nostri allievi terapeuti in formazione abbiamo lasciato intendere cose del genere, beh, abbiamo un problema. Vorrei dire con forza che Boscolo e Cecchin, e con loro il primo gruppo di Milano, erano autentici terapeuti narrativi, e lo erano già quando nessuno pensava di definire la terapia in quei termini. Ma non, semplicemente, nel senso che erano tanto bravi a raccontare storie: nel senso che sapevano come si fa. Nel senso che la tecnica del colloquio che hanno inventato, così come l’abbiamo studiata e cerchiamo di insegnarla ai colleghi più giovani, era una vera e propria tecnica narrativa. Muoveva, cioè, dalle stesse preoccupazioni che animano i narratori nello scrivere una storia. Allora, quello che Boscolo e Cecchin sapevano (e che lo sapessero si capisce da quel che facevano, anche se magari non l’hanno mai descritto, e credo mai pensato, in questi termini) è che una narrazione implica un’architettura, e la costruzione di quest’ultima implica la cognizione di quel che si sta facendo: per dirla meglio, implica una tecnica.
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