Occupandoci intensamente di costellazioni familiari sistemiche, riteniamo utile, per gentile concessione della rivista "Connessioni", un estratto dell'articolo di Igino Bozzetto che ha come oggetto una recensione del film di animazione "COCO".
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La memoria familiare: tempi, leggende, segreti
“La memoria familiare è quella struttura sovraindividuale, a rete, fortemente ridondante, che garantisce la perpetuazione di comportamenti, linguaggi, significati condivisi” (Formenti, 2000). A partire dagli anni Ottanta, molti autori sistemici – White ed Epston, Bruner, Hoffman, Anderson, Sluzki – hanno abbracciato il paradigma narrativo “identificando nelle conversazioni e nelle pratiche discorsive tra gli attori quel processo costitutivo e inarrestabile di co-creazione della realtà grazie al quale si afferma e si elabora continuamente non solo l’identità del sistema familiare ma quella dei suoi membri”, con l’obiettivo terapeutico di permettere al paziente di modificare la propria esperienza del mondo attraverso la rivisitazione delle sue descrizioni e narrazioni.
Il pensiero narrativo è pertanto la struttura attraverso cui la memoria familiare tramanda “interi sistemi di conoscenze, rappresentazioni del mondo, valori, teorie condivise, compresa la rappresentazione di sé come famiglia. […] La famiglia è raccontata dai suoi componenti, che definiscono nel tempo, attraverso relazioni e conversazioni significative, i confini del sistema familiare (le appartenenze, le acquisizioni, le fuoriuscite…), la sua struttura (alleanze, coalizioni, ruoli, vincoli…), addirittura la sua identità” (ibidem, pag. 70-71).
Nell'affrontare la propria morfogenesi, il sistema familiare deve coordinare due funzioni: la generazione degli adulti ha il compito di trasmettere il lessico familiare, l’identità e i valori condivisi attraverso il racconto di ciò che si è stati, di ciò che si è sperimentato e capito nella vita, mentre le nuove generazioni hanno il compito di collegare il sistema a ciò che è e a ciò che sarà, a rimenere curioso dell’ambiente.
Un aneddoto relativo alla mia famiglia permette di esemplificare il concetto. Mio padre tornò in Italia dalla prigionia in Germania nel giugno del 1945 dopo due mesi di avventuroso pellegrinaggio e quando noi fratelli eravamo bambini, durante il pranzo domenicale, raccontava i particolari del suo viaggio di ritorno che accendevano la nostra fantasia e ci chiamavano a vedere la vita come una possibilità di trovare sempre una soluzione anche nei momenti più difficili. È stata un’attività che è durata per tutta la sua vita, fino a pochi giorni prima di morire, verso la quale mi sono nel tempo posto in modi differenti: affascinato da bambino, annoiato da adolescente, gratificato dalla curiosità che vedevo negli occhi dei miei figli e infine abbracciato dalla nostalgia nell’ultima parte della sua vita. Ma anche noi figli abbiamo contribuito ad una evoluzione che riesco a situare in un momento preciso: l’invito ad andare tutti insieme a vedere il film La tregua, tratto dall’omonimo libro di Primo Levi. Ricordo perfettamente che all’uscita dal cinema disse “Orca! Duro però!” e che dalla domenica successiva fiorirono ricordi che prima erano rimasti sullo sfondo di un oblio più o meno selezionato, come per esempio l’ammissione di avere conosciuto anche “biblicamente” la rossa tedesca che lo aveva ospitato e sfamato assieme ai suoi commilitoni per una intera settimana.
Copioni, miti e paradigmi sono pertanto i meccanismi attraverso cui la memoria svolge le sue funzioni anche se nel tempo hanno subìto dei cambiamenti di significato; ad esempio il mito, che inizialmente con Ferreira aveva un’accezione patologica, una sorta di meccanismo di difesa familiare con funzione omeostatica (divieto di metacomunicare, di problematizzare) ha assunto nel tempo una funzione morfogenetica utile a garantire l’identità familiare nelle transizioni da una fase all’altra. Miti pertanto possono essere considerate “tutte quelle storie familiari che, pur senza essere necessariamente disfunzionali o distorte, assumono quel carattere di intoccabilità” (ibidem, pag. 78-79).
Il mito della famiglia di Coco, los zapateros Rivera,si può riassumere in una frase: “La musica ha lacerato la famiglia ma le scarpe l’hanno unita”. Un fatto occasionale – la trisavola Imelda comincia a costruire un paio di scarpe per reagire e sopravvivere all’abbandono del marito – diventa un insegnamento del mestiere alla figlia Coco e questa attività si slega sempre più dal fatto originario per assumere un senso più generale nel presente: una situazione familiare difficile viene risolta in un certo modo e diventa un modello per tutti. E tutto ciò diventa un paradigma,quel “complesso di presupposti, immagini reali o ideali, rappresentazioni, concetti, che coincide con la visione complessiva del mondo e di sé” (ibidem,pag. 79). Utilizzando le lenti di Reiss (citato in Formenti, 2000), potremmo descrivere la famiglia di Miguel configurata in modo ordinato e controllabile con competenze di controllo e gestione degli eventi al proprio interno, altamente coesa – salvare il sistema a scapito delle individualità – e, rispetto all’esterno, tendente a cogliere e a mettere in rilievo solo ciò che è riconoscibile e noto privilegiando la continuità con il passato. Sembra essere una famiglia orientata al consenso, in cui c’è ricerca di vicinanza, unione accordo e contrarietà al dissenso mentre il mondo in alcuni suoi aspetti, viene visto come caotico e pericoloso, in modo particolare tutto ciò che è legato alla musica. La crisi innescata da Miguel permette di far emergere un sistema famiglia resistente al cambiamento. Se “la memoria familiare è quindi una sorta di mosaico nel quale ognuno inserisce le proprie tessere e i propri colori, ricordando ciò che vuole e ciò che può” (ibidem, pag. 83), il ragazzo elabora una propria versione della storia familiare: lui è il discendente che incarna il mito della musica al quale tutta la famiglia oppone la storia di continuità attraverso la memoria referenziale (i valori che noi adulti ti trasmettiamo sono l’unico riferimento per la tua crescita), la memoria relazionale (devi partecipare ai rituali che rinforzano la coesione) e l’oblio (ci sono fatti che hanno determinato il corso della nostra storia ma sappi che su di essi non si può parlare).
La memoria familiare è un artefatto condiviso che influenza il senso di appartenenza attarverso dei segni chiari: il lessico, i gesti quotidiani, l’uso dello spazio, delle abitudini, degli oggetti simbolici tramandati da una generazione all’altra. “Il materiale da costruzione intorno a cui si articolano le azioni e le narrazioni della famiglia può essere definito attraverso alcuni topoi”(ibidem, pag. 93):
i luoghi della nostra vita: Miguel vive nella casa di famiglia che è anche l’azienda in cui tutti lavorano alla costruzione delle scarpe e in quel luogo si fa tutto con regolarità e continuità dalla cura personale, alla cura per gli anziani, dall’alimentazione alla divisione dei ruoli, dalle affettuosità ai rituali come quello dell’ofrenda in cui si ricordano i morti delle generazioni precedenti;
il desco familiare: il nostro protagonista siede vicino alla bisnonna Coco e deve sottostare all’insindacabile sollecitazione della nonna a mangiare la quale ha il ruolo di sfamare tutta la famiglia;
gli oggetti di famiglia: tra questi le foto che in questo film svolgono un ruolo principale, “vie di scampo all’oblio” (ibidem, 94). È a partire proprio da un particolare di una foto in cui sono presenti Imelda, Coco e l’innominabile che Miguel costruisce la sua personale storia di appartenenza. Nel lembo nascosto ad arte dalla trisavola, compare la chitarra che autorizza Miguel a non temere più le proprie percezioni e le proprie inclinazioni: è geneticamente un musicista.
Sembra evidente quanto la memoria familiare, così come la Formenti ce la spiega, sia una risorsa omeostatica e morfogenetica della famiglia e altrettanto chiaro che i sistemi che non ne fanno uso mettono più a rischio di altri le relazioni, le appartenenze e la costruzione di senso.
“La memoria è come la vita: dinamica, costruttiva, relazionale… Nei suoi recessi più oscuri si cela forse la chiave per la felicità e l’autenticità del vivere a patto che qualcuno sia disposto a tramandarci storie, ad assisterci nei nostri sforzi di ricordare, a condividere con noi il piacere del racconto, ad accogliere e rispettare le emozioni, i vissuti, i silenzi e gli oblii come espressioni individuali del diritto di esistere e di scegliere per sé” (ibidem, pag. 97). Hasta la vista, Miguel.
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