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COME NASCONO LE STORIE?



Per gentile concessione della rivista "Connessioni", un estratto del mio articolo comparso sul numero 4/2018.

L'articolo per esteso può essere letto seguendo il link


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In questa accezione i miti avrebbero proprio la funzione psicologica di accompagnare l’individuo attraverso i compiti di sviluppo della vita, dalla nascita alla morte (e persino oltre, visto il grande numero di miti che hanno a che fare con l’inconoscibile!). Le combinazioni sono infinite ma tutto sommato nei miti c’è un numero limitato di ruoli da rappresentare, dato che essi sono in relazione ai compiti di sviluppo, costanti universali all’interno delle quali si dispiega l’unicità di ogni singola storia di noi esseri umani. Dunque nel mio approdo avevo trovato alcune idee-guida che potevano costituire un ponte tra contesto sovraculturale, modelli culturali ampi e biografie: gli ordini mitologici.


Per fornire un esempio mi servirò del mito più diffuso nella storia umana: il viaggio dell’eroe, dettagliatamente analizzato da Joseph Campbell in “L’Eroe dai mille volti”. Questo mito compare in modo ricorrente in culture ed epoche differenti (cfr. i miti di Gilgamesh, Ulisse, Buddha, Mosè, Dioniso) e costituisce anche la base di molte delle odierne narrazioni cinematografiche più famose, quali le saghe di Star Wars o The Lord of the Rings.


Come bene illustra il celebre sceneggiatore Chris Voegler, nel mito del viaggio dell’eroe, articolato in dodici passaggi (ognuno dei quali ulteriormente suddiviso in più tappe), i protagonisti iniziano la loro avventura come persone qualsiasi che vivono tranquillamente all’interno del loro mondo quotidiano (1), quando, spesso improvvisamente e loro malgrado, vengono coinvolti in una rischiosa impresa che ha come fine il bene comune (2). Inizialmente sono riluttanti e cercano di ignorare o rifiutare la chiamata (3), ma una figura saggia ed autorevole a questo punto fornisce loro insegnamenti e competenze (4), indispensabili per lasciare la loro casa e cominciare il viaggio, varcando la prima soglia per entrare nel mondo sconosciuto (5). Privi delle loro antiche sicurezze, affrontano prove, formano alleanze e si scontrano con antagonisti (6), fino a raggiungere il luogo più buio e minaccioso (7), la seconda soglia che li introduce alla prova centrale, di solito un confronto fisico, psichico e/o spirituale con forze superiori (8), per conquistare l’oggetto della ricompensa (9) e poter tornare a casa. Dopo aver superato la prova, feriti e stanchi, sulla via del ritorno vengono ancora inseguiti e attaccati (10), e qui, rischiando l’annientamento e la morte, varcano la terza soglia e vivono una esperienza di “resurrezione” che li trasformerà profondamente (11). Infine, cresciuti e cambiati, tornano alla loro casa portando una dote o un tesoro, fonte di benefici per l’intera comunità (12).


Un mito sovraculturale dunque, che ripercorre lo sviluppo psicologico dell’essere umano, dalla condizione innocente dell’infanzia alla conquista del proprio posto nel mondo, passando per le crisi trasformative dell’adolescenza e le prove dell’età adulta. Un mito che emerge da quelle coordinate di specie che sono i compiti di sviluppo e che ogni cultura, antica o contemporanea, forgia in modo specifico a partire dai propri modelli.


Queste mie prime supposizioni, mi hanno portato ad interrogarmi circa il modo in cui verrebbero trasmesse ed elaborate quelle che ho individuato come coordinate di specie. Perché alcune idee possano essere trasmesse, assimilate e integrate da qualunque popolazione in qualunque epoca, occorre un linguaggio universale, un linguaggio che non sia su base numerica ma analogica: il simbolo.


Oggi, nella maggioranza dei casi, il simbolo è sbrigativamente inteso soprattutto come “segno”, come una specie di astrazione, una designazione, liberamente scelta, che è legata all'oggetto designato per convenzione sociale, come ad esempio i segni verbali o matematici, i cartelli stradali, le faccine nei messaggi su WhatsApp. Invece con tale termine si deve caratterizzare qualcosa che dietro al senso oggettivo e visibile ne nasconde un altro, invisibile e ben più profondo: una bandiera non è altro che un pezzo di stoffa colorata, ma “l’emisfero destro non fa questa distinzione e considera la bandiera sacralmente identica a ciò che essa rappresenta. Così “Old Glory” è gli Stati Uniti: se qualcuno la calpesta, può esserci una reazione di rabbia” (G. Bateson). Il linguaggio spiega, il simbolo desta presagi spingendo le sue radici nelle profondità dell’animo (J.J.Bachofen), il simbolo trasforma un fenomeno in idea, poi fissa quest’ultima in un’immagine, mantenendo quell’idea attiva ma al tempo stesso inesprimibile attraverso la parola (J.W. Goethe). Un simbolo non traduce un contenuto, piuttosto ne rappresenta il senso (E. Fromm), non è allegoria né segno, ma immagine di qualcosa che trascende la coscienza (C.G. Jung).


È significativo inoltre che simboli analoghi sorgano in culture molto distanti tra loro, nel tempo e nello spazio, come parti integranti degli ordini mitologici che narrano le origini, i principi fondanti, lo sviluppo in termini sociali e psicologici di un popolo. In altre parole, alcuni simboli emergono nella narrazione collettiva delle storie degli uomini e delle loro culture, apparentemente in modo indipendente da esse: come è possibile? Per rispondere potremmo iniziare con il collegarci a una semplice nozione di etologia: il meccanismo scatenante innato descritto da Konrad Lorenz. Se su un gruppo di pulcini passa un falco, oppure se si fa passare una semplice sagoma di cartone a forma di falco, i pulcini correranno a nascondersi, anche se non hanno mai visto un falco. Questo induce a pensare che allo stimolo “predatore” non reagisca il singolo pulcino, quanto piuttosto la razza: la risposta sarebbe collettiva, non individuale.


Il comportamento collettivo in risposta ad una immagine esemplifica bene il concetto di archetipo: un simbolo arcaico, o meglio “originario” (ὰρχέτυπος primo esemplare), che può provocare reazioni emozionali o comportamentali che hanno senso in quel contesto. Chi risponde al simbolo/archetipo (elementi sovente embricati) non è quindi solo l’individuo, ma l’intera dimensione collettiva di cui fa parte. Un mito è quindi una storia narrata e trasmessa ricorsivamente dalla collettività e dall’individuo, usando il linguaggio analogico rappresentato da simboli e archetipi.


Tale considerazione diviene particolarmente interessante se consideriamo che facciamo esperienza del simbolo continuamente: ogni volta che una certa rappresentazione, senza apparente motivo, rivela a noi un potenziale evocativo, provocando commozione, suscitando un’emozione, generando uno stato d’animo, scatenando una catena associativa, o semplicemente un moto di sorpresa, sgomento o gioia, siamo a qualche livello in risonanza con i suoi significati nascosti, con la storia di cui quell’immagine è parte integrante, qualcosa che cogliamo non grazie alla coscienza neo-corticale ma grazie alle strutture più arcaiche del nostro cervello, situate nel sistema limbico.


Seguendo il filo delle mie ipotesi, sono infine giunta alla questione che riguarda la trasformazione delle coordinate di specie in mitologie rappresentative di specifici modelli culturali.


Adolf Bastian, viaggiatore e antropologo del diciannovesimo secolo, per descrivere la dimensione universale delle mitologie coniò il termine “Elementargedanke”, ovvero idea elementare. Naturalmente egli osservò che nessuna idea si presenta all’osservatore allo stato puro, ma piuttosto nella forma in cui quella particolare cultura la sperimenta. Per questo coniò un altro termine: “Volkergedanke”, ovvero idea etnica. Ad esempio, studiando i miti e il folklore europei, possiamo osservare che gli eroi attraversano foreste oscure abitate da terribili lupi minacciosi, mentre nei miti delle isole del Pacifico, a rappresentare il pericolo, sono mari profondi popolati da squali famelici. L’incognito e il pericolo vengono rappresentati in forme diverse, ma il lupo e lo squalo non sono altro che espressioni della stessa paura primordiale che l’eroe deve affrontare. Non a caso i riti di iniziazione spesso separano l’individuo dal gruppo sociale (il perimetro delle sicurezze) per consentirgli di incontrare i propri limiti e le proprie risorse all’interno di contesti a lui ignoti (oscuri), dimostrando così di poter lasciare una condizione, ad esempio quella di ragazzo-figlio, per assumerne una nuova, quella di guerriero-sposo.


Le idee guida fin qui esposte, mi hanno dunque condotto a considerare i miti come narrazioni derivate dalle coordinate di specie (rappresentate dai compiti di sviluppo), tradotte in idee culturali ed espresse attraverso simboli che risuonano in termini di immagine collettiva, attivando reazioni e comportamenti sensati in quel determinato contesto: in altre parole ogni mito convalida un’esperienza millenaria che ha creato un modello al quale ispirarsi.


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